La prima volta


C’è un preciso limite che distingue il vero dal falso naives: il secondo è un artista di poca scuola e di scarsa mano che occhieggia qua e là, rubando idee e stili ed approdando ad esiti incerti di fronte ai quali l’unica naivetè possibile è quella di chi guarda; il primo è un artista, invece, che avverte urgente il bisogno di una diversa espressione a questa condotto da una sua ingenua e pulita sensibilità. E’ chi si accosta alla pittura con lo stupore del bambino che pronuncia le sue prime parole per designare a suo modo il proprio rapporto con il mondo.

Ebbene proprio a questa seconda categoria, cioè ai naïve veri, di fronte alle cui opere al fruitore spetta soltanto uno sforzo di puro acconsentimento, appartiene Gaetano Ferlazzo che nel corso della sua vita, fino allo scorso anno quando ci ha lasciati, ha raccolto le sue impressioni spontanee lasciando un nutrito corpus di opere che vanno al massimo valorizzate, prima che esse vadano per ventura disperse.

Come un Pietro Ghizzardi, l’artista di Viadana, morto nel 1986, anche Ferlazzo manifesta nei suoi coloratissimi dipinti l’urgenza di parole che non si trovano (l’artista della Valle Padana firmava addirittura Pietro Ghizzardi), e sulla tela mette allo scoperto la sua anima mediterranea, volta soprattutto al dialogo con la natura. Ma mentre quella di Ghizzardi era una visione cupa e ribelle del mondo, un urlo lacerante contro la sofferenza e l’emarginazione da cui scaturivano volti deformati e ombrosi e figurazioni come da incubo, quella di Ferlazzo è una visione al tutto visionaria, come di chi avverte breve la distanza dalla felicità e si sforza di fermare ciò che per destino suo, e nostro. è inafferrabile.

Certo anche nell’autodidatta Ferlazzo che non ha radici contadine, pur se accanto al suo lavoro ha amato molto la campagna, si possono riscontrare dei maestri: l’artista, guidato dal suo gusto e dalla sua tensione culturale, avrà visto immagini, ma la sua naiveté non nasce per nulla dal museo, quanto piuttosto da un intimo cortocircuito che si scatena tra la sua irrefrenabile fantasia e le cose che vede. Nasce proprio da qui un linguaggio del tutto personale, inventato e innaturale, che tuttavia nel raccogliere ingenue fantasticherie funziona da meccanismo di fantasie, nel raccogliere immagini, scatena l’immaginazione.

Eppure, sempre tenendo ferma questa pulizia etica, prima ancora che estetica, Ferlazzo dimostra una lenta ma continua conquista della sapienza espressiva: basta confrontare i primi dipinti, sul finire degli anni Cinquanta, con gli ultimi per accorgersene. In un primo tempo domina l’immagine dei fiori resi con una pittura grassa e scomposta e in una visione assolutamente frontale. Qui prevale incontrastato il colore che, se da una parte al di là di ogni tensione puramente descrittiva, ignora completamente il disegno, dall’altra va di per se a comporre improbabill anturium, ciclamini, dalie ornamentali, narcisi, tulipani, crisantemi, viole del pensiero, gigli e rose.

E’ tutto uno squillare di toni forti e brillanti con cui l’artista, dei fiori, va catturando non la forma (l’incertezza mimetica è, dunque, un pregio e non un difetto come potrebbe notare chi per sua sventura si ostinasse a cercare la “verità della forma”) ma piuttosto il profumo, quella gioia naturale ed anche un po’ esibizionistica del mostrarsi prima di appassire.

Poi, nel corso degli anni, la pennellata si fa più attenta, più leggera, più pulita e precisa (a conferma che la migliore scuola d’arte è la pratica dell’arte) ed anche la raffigurazione comincia a complicarsi. Gli stessi vasi con fiori non vengono più poggiati su semplici tavole, ma su finti mosaici, su studiate tovaglie di velluto che esibiscono le loro sapienti pieghe o su settecenteschi tavoli cesellati a oro; all’interno del vaso compaiono motivi decorativi come una coppia di cervi, un maestoso Collie, galli in amore, giraffe, serpenti, uccelli, aquile.
Tutti questi motivi decorativi sono resi con estrema cura dei particolari, con una pittura puntigliosa nel suo farsi ma ancora una volta ribelle rispetto al modello. Tutto appartiene alla natura, ma tutto, per via di pittura, appartiene solo alla fantasia di Ferlazzo che comincia a popolare i suoi dipinti con fagiani, improvvise aperture su lontani paesaggi montani e una farfalla che torna molto spesso.
Dopo i fiori i frutti, questa volta composti in accurati cesti davvero inipagliati a mano, quindi le composizioni, quelle che si chiamano “nature morte”, come quella bellissima del 1979. C’è già qui un principio di organizzazione pittorica, la volontà di uscire fuori dall’oggetto per inserirsi completamente nella natura: si guardi ad esempio la ricchezza del cesto delle pesche del 1987 che domina un esteso campo di grano punteggiato da papaveri (Van Gogh?); il bellissimo cesto di mele del 1989 in cui la pennellata è molto più raffinata, tesa a cogliere il volume dei frutti (Cezanne?); la composizione con mele, pere e uva (del 1990) resa con pochi tocchi di bianco e con una attenta grafia (Concetto Pozzati?); il cesto con agrumi del 1991 o il cesto delle mele del 1989 guardato a vista da un fringuello capriccioso.
E’. tutto un mondo che rivive attorno a questi quadri, la Sicilia dai colori accesi, dai frutti generosi, dagli odori acri e dolcissimi; la campagna con i suoi ritmi naturali, le sue. scadenze ineluttabili e le sue inviolabili regole. Ed ancora il mondo contadino fatto di quella semplicità che oggi, smarrita di fronte alla superficialità sommaria di certo pensiero metropolitano debole, chiameremmo davvero profonda e forte; un mondo fatto di pulizia e di ordine, di rispetto e di gratitudine.
Ma l’artista non si ferma di fronte all’oggetto, singolo o complesso come si è visto, ma estende ancora più in là questa sua filosofia di vita, il suo anelito di armonia. Nascono proprio da questa tensione alcuni dipinti che potremmo dire coral i o se si vuole di “paesaggio”, in cui Ferlazzo mostra appieno il nucleo profondo della sua visione del mondo. Ed ecco, ad esempio, un grande mandorlo in fiore che estende le sue braccia quasi a custodire e rendere più allegro il “Pascolo dei cavalli” del 1983; dello stesso anno è quella magnifica “Pineta con pastorizia”, con gli alberi piantati in varie file come saldamente piantato è il contadino, e le fronde a creare un moto ondoso di verde al di sopra del quale si inseguono piccole nuvole su un cielo azzurro (Magritte?).

Del 1984 è, invece, il “Campo di grano con papaveri” qui l’artista, come in rassegna, chiama a raccolta gli alberi, un vero picchetto d’onore schierato a rendere omaggio ad una piccola figurina di donna, anziana si direbbe dai capelli bianchi circondati dal fazzoletto nero, che quasi galleggia, (affonda o riemerge?) tra spighe e papaveri. Torna il campo di grano come sfondo ai filari di querce in un dipinto dello stesso anno in cui tuttavia l’attenzione viene posta soprattutto sul rosseggiare del tramonto in alto, tra merlate colline e merlettate nuvole a far da cornice al rosseggiar dell’ora e sull’evento di morte e di vita che vien colto nell’aquila bianca che tra gli artigli tiene la sua preda.

Del 1985 è un magnifico telero che raffigura un “Paesaggio di ginestre” dove ritornano tutti gli elmenti di Ferlazzo in una composizione davvero suggestiva che parte con la fuga di animali, si scandisce nell’immagine di una villa campestre e poi man mano si inerpica, attraverso alberi e montagne e ginestre, fino al cielo. C’è, in questo dipinto, oltre al senso di ordine, un grande amore per la natura, quello stesso che si riscontra nella “Villa sul fiume” del 1984 o nella “Villa con ortensie” in cui compaiono, con i rispettivi cagnolini al guinzaglio, anche due aristocratiche signore: quello stesso che spinge Ferlazzo a denunciare, come egli può, cioè con felicità drammatica, il pericolo del fuoco che incombe sulle pinete.
Altre volte, infine, l’artista di Patti che a lungo, per via del suo lavoro ha viaggiato, ferma sulla tela i suoi ricordi lontani: così è per il triestino Castello di Miramare; per la passeggiata Anita Garibaldi a Nervi o per uno squarcio di Genova, con il paesino, di una semplicità francescana, arroccato sul mare.
Come per il resto della sua opera, anche in questi dipinti Gaetano Ferlazzo ci consegna delle immaginazioni di pura freschezza, rese sì con una mano che ha imparato i segreti non “della pittura”, ma “della propria pittura», ma soprattutto sorrette dalla felicità e dallo stupore di chi compie un gesto per la prima volta. Ed è proprio una “pittura da prima volta”, questa di Ferlazzo, che può certamente definirsi un grande artista naives, innamorato del colore, che appieno ha colto la ricchezza della natura con i suoi infiniti registri.
Ma nella sua opera, che andrà certamente meglio studiata e fatta conoscere come ampiamente merita, non c’è soltanto l’immagine di ciò che l’artista ha visto; leggero come un vento d’aprile si avverte anche l’invito a guardare meglio ciò che noi, resi ciechi e indemenziati, più non vediamo.

Lucio Barbera